IL MIO NOME E’ SIBLING: TUFFO NELL’UNIVERSO DEI FRATELLI DEI BAMBINI DISABILI
“MAMMA, CHE COS’HA ISABELLA?“
Era di sera, Eleonora e Francesco stavano finendo di mangiare quei quattro pezzettini di pappa che erano rimasti nel piatto (il resto, lungi dall’essere nei loro pancini, era in ordine sparso tra tovaglia e pavimento…), e io stavo imboccando Isabella.
Eleonora mi chiede di aiutarla a mangiare, cioè di imboccarla; di fronte al mio rifiuto, motivato dal fatto che era assolutamente in grado di mangiare da sola perché era grande, lei controbatte dicendomi che però io stavo imboccando Isabella, che pure è più grande di lei. Presagendo dove si stava andando a parare, le ho detto che Isabella non poteva farlo, e che quindi doveva essere aiutata.
Allora Eleonora, con cautela, scende dalla sedia, si avvicina scrutando bene sua sorella, e mi chiede, sgranando i fanali:
“ mamma, ma che cos’ha Isabella? Perché non può mangiare da sola? Perché non cammina, perché non prende in mano i giochi? Perché non parla? ” e via dicendo, elencando minuziosamente tutto ciò che Isabella non fa…
Lo sapevo, prima o poi sarebbe successo. Dovere spiegare ai miei figli la malattia di Isabella.
La mia tentazione è stata di rassicurarla, di non avvilirla, di dirle: “tranquilla amore, Isabella è una bambina come tutti gli altri…”, ma le avrei detto una bugia. O perlomeno, lo avrei fatto considerando il suo punto di vista.
Noi genitori dobbiamo tenere presente che, in termini emotivi ed affettivi, un figlio disabile è uguale ai suoi fratelli solo per noi, e per gli altri adulti che ci stanno intorno. Per i bambini è diverso. Loro non analizzano le cose su piani, per così dire, profondi. Non fanno questioni di etica, di diritti. I bambini vedono il mondo girare intorno a loro, per loro l’uguaglianza si limita a ciò che vedono.
Mi spiego meglio. Io amo indistintamente Isabella, Eleonora e Francesco; la mia carica di amore è quantitativamente uguale per tutti e tre (non mi piace dire che “divido” il mio amore in parti uguali, ma piuttosto che lo “moltiplico”); agli occhi della mia anima e del mio cuore la mia primogenita è uguale ai suoi fratelli. Ma agli occhi di mia figlia le cose sono un tantino diverse.
Vi farò anche un’altra confessione. Dare a Eleonora una risposta evasiva mi avrebbe permesso di prendermi del tempo, di procrastinare l’argomento a più avanti, a quando magari lei sarebbe stata più grande. E nel contempo di proteggerla dal dolore. Ma nel frattempo???
Rispondere in maniera inadeguata, rifiutando di far riconoscere a Nora la malattia di sua sorella, o fornendo risposte incomplete e sfuggenti avrebbero potuto scatenare nel cervellino di mia figlia pensieri incontrollati. Quando di fronte ad una domanda di un bambino, sia banale (perché hai l’orecchino al naso?), sia esistenziale (che cosa è successo a mia sorella?), la nostra risposta è, di fatto, una non-risposta, il bambino non si accontenta. E si risponde da solo, con i dati e gli strumenti che ha a disposizione. Allora il rischio è che Eleonora si crei dei mostri che hanno punito Isabella per non aver fatto la brava, o che sia caduta (e quindi può succedere anche a lei…), o ancora peggio, che sia colpa sua. Il mondo del bambino è un mondo egocentrico, dove tutto si svolge intorno a lui ed in funzione del suo comportamento.
No, non me la sarei cavata con una rispostina da tre centesimi…
Ho cercato di capire quali erano i dati che potevano essere elaborati da Eleonora e le ho spiegato che Isabella aveva fatto un po’ fatica a nascere, e che si era sforzata ed affaticata talmente tanto che le era venuta una bua nella testolina, che le impediva di fare tante cose.
Vi dico esattamente quello che le ho detto, consapevole del fatto che qualcuno avrà da ridire sulla mia risposta. Ma, come ho avuto modo di dire ad un “esperto”, avevo due nanosecondi di tempo per trovare le parole, e non sono né una psicologa né una pedagogista, quindi mi sono dovuta arrangiare. Se avessi avuto il supporto alla genitorialità di cui abbiamo bisogno noi “diversamente famiglie”, magari sarei stata più brava…
Naturalmente a quella prima domanda ne sono seguite decine quella sera, centinaia il giorno dopo, e oramai siamo vicino al migliaio…
Ma come spesso i bambini fanno, Eleonora mi ha stupito per la sua capacità di recepire le cose e di elaborarle; soprattutto, lei adesso sa che mi può chiedere qualunque cosa, che non ci sono argomenti tabù, sa che la malattia di Isabella non è colpa di nessuno di noi.
In particolare, e questo è un argomento che accomuna tutti i siblings, ciò che è un tantino più complicato da capire è che la malattia di Isabella non passerà, Isabella sarà malata per sempre. Infatti, quando le ho spiegato cosa era successo, Nora mi ha ribattuto dicendomi che pure lei una settimana prima era caduta e aveva sbattuto la testa, però era guarita, e quindi anche sua sorella poteva guarire…
Ragazze, che groppo… l’innocenza di quell’osservazione mi ha asfaltato…
Credo che questo sia il primo vero trauma di un sibling. Dover avere a che fare con una malattia cronica, con una disabilità permanente, che di per sé è una cosa più grande persino di noi adulti.
Se per dolore o insicurezza non affrontiamo la cosa con i nostri figli, essi lo faranno da soli, si daranno risposte che a noi sembrano assurde ma che per loro filano benissimo. Essere genitori di un bambino disabile e di altri figli “sani” comporta anche questa difficoltà, dover gestire il dolore e la delusione dei propri bambini. Ma non possiamo nasconderci dietro il nostro dramma. È un dovere, credo, dare ai nostri figli la giusta consapevolezza e il sostegno incondizionato necessari ad affrontare una situazione così difficile.
Noi non ci dobbiamo mai dimenticare che, in assoluto, il rapporto disabile/fratelli è il più duraturo, perché essi percorreranno insieme tutta la vita.
Va da sé che le risposte che dobbiamo fornire ai nostri bambini devono essere commisurate all’età. Cioè, se io avessi cominciato a spiegare ad Eleonora che Isabella ha una Paralisi Cerebrale (anziché una bua che non guarisce), che quando è nata è rimasta senza ossigeno (anziché fatica a nascere) non avrei risolto molto, avrei usato termini a lei ignoti, e avrei presupposto in lei una conoscenza del processo biologico assolutamente inadeguato all’età.
E’ quello che ho detto all’”esperto” di cui sopra quando mi ha criticato circa la sostanza della mia risposta, a suo dire troppo semplice: aggredire una bambina di nemmeno quattro anni con paroloni e disegni sull’interno della nostra testa le avrebbe gettato sulla groppo una gerla molto più pesante. L’avrei trattata da scolara, quando lei andava ancora alla materna, avrei implicitamente preteso da lei una maturità eccessiva. Già in queste situazioni i siblings crescono prima, almeno non facciamoli crescere da soli, come una sorta di autodidatta.
Parlare con loro con sincerità, semplicità e chiarezza di una cosa così grande li farà sentire partecipi di quella famiglia da cui, altrimenti, si sentirebbero, se non proprio esclusi, messi ancor più da parte.
Alla prossima, amiche!