“Perché Santo Romano è stato ucciso?”, questa domanda insiste sulla bocca di tutti da quando nella notte tra venerdì 1 e sabato 2 Novembre il 19enne napoletano è caduto esanime sull’asfalto di San Sebastiano al Vesuvio con un proiettile in pieno petto.
Santo era un figlio, un fidanzato, un amico, uno sportivo, un giovane pronto ad andare verso il futuro, ma la sua vita è stata violentemente interrotta a causa di una lite alla quale lui ha preso parte solo come paciere.
Ritorniamo a quella terribile notte: a monte di tutto un pestone involontario su una scarpa, un amico di Santo inciampa nel piede di un ragazzo scatenato una lite per futili motivi tra due diversi gruppi di giovani. Santo interviene tentando di mediare la pace, ma poco dopo il “giovane offeso”, a bordo della sua automobile, si affianca a Romano e ai suoi amici e apre il fuoco.
Sarebbero stati esplosi almeno due colpi, uno dei quali raggiunge Santo al petto uccidendolo, un altro ne ferisce un amico al gomito.
Perché Santo Romano è stato ucciso?
Com’è possibile che un 17enne armato apra il fuoco su un gruppo di giovani solo a causa di pestone su una scarpa? Cosa anima tutta questa violenza?
La morte di Santo Romano è emblematica, dimostra, infatti, che il mondo in cui viviamo è abitato dalla violenza e che “la violenza è un sistema destinato a vincere”, almeno fino a quando non sarà decapitato. Mi spiego meglio: ciascuno di noi, in qualità di individuo, è un sistema aperto, ovvero abbiamo una organizzazione mentale che influisce sulle nostre scelte di vita ed è condizionata dai nostri valori. Il sistema persona, però, non è auto-formativo, esso si genera e si struttura nel seno della famiglia e la famiglia, altro sistema aperto, trova una più ampia sede di generazione ed influenza nella società.
Pertanto, individuo, famiglia e società sono tre sistemi concatenati ciascuno aperto all’altro, influenzato ed influente rispetto agli altri. Questi sistemi diventano violenti o malati quando si cibano di terrore, sopraffazione e paure.
La pistola puntata contro Salvo Romano è l’emblema di un sistema prevaricatore, criminale, aggressore che disconosce la giustizia e non ha esperienza di alcuna verità, trasparenza o bontà.
Santo Romano ci permette oggi di guardare la violenza fissa negli occhi, può essere l’inizio di una nuova battaglia
Le ultime parole di Salvo sono state “Dai, fratello, ti ha chiesto scusa”, l’ultima azione del killer è stata lo sparo. Questa immagine è dicotomica da un lato un ragazzo giusto che usa le parole, dall’altro uno ingiusto che esprime la violenza.
La sconfitta del sistema giusto e buono è fisiologica ed invincibile perché di fatto il giusto è a mani nude mentre il marcio impugna un “ferro” comperato sul mercato nero. Tra giusto e marcio non c’è canale di comunicazione, non parlano la stessa lingua, sono distanti ed estranei.
Nella società attuale tendiamo ad allontanare, distanziare e persino ghettizzare ciò che ci turba, che ci fa paura e che è disturbante, del resto, quello che non accade in casa nostra non è nostro, non ci appartiene e, quindi, non ci interessa.
Questo atteggiamento mentale ci conduce a disconoscere la penetrazione del male nella nostra società: fin tanto che esisteranno sistemi malati, anche ai margini delle società, è impossibile immaginare che buono e cattivo non si incontrino mai. Nel momento dell’incontro, due sistemi così differenti non possono che collidere.
La logica criminale
Il criminale è cresciuto in una logica di forza e di sopraffazione e in una spirale di violenza; infatti, chi ha ucciso Santo ha determinato sul corpo del ragazzo un confine che gli è stato inculcato, ovvero, ha segnato il comando, il potere, la forza, la vittoria sottolineando tutto ciò con la padronanza di un’arma.
Il killer non era e non è in condizioni di comprendere Santo e le sue parole perché si ciba di sopraffazione e mangiare Santo, la sua vita, la sua giovinezza, probabilmente è significato affermare un ruolo. Ovvio è che tutto ciò è aberrante ancor più che inaccettabile. La violenza non dipende dalla nostra accettazione ma può essere condizionata nel suo espandersi dalla nostra opposizione e non possiamo opporci se non guardandola fissa negli occhi.
In cosa abbiamo sbagliato come adulti?
A furia di respingere il male, abbiamo creato una distanza incolmabile tra bene e non bene. Ciò che è criminale oggi tende a distruggere ciò che è bene, da un lato la violenza è animata da quella fame feroce di prevaricazione, dall’altro è figlia di quella distanza che non ha mai reso il bene come un’alternativa a chi nasce dentro il male. Inoltre questa tendenza a stare lontano dal male ha animato nei giovani una contrapposizione velenosa che di per sè amplifica il bisogno criminale di esporre la violenza.
Santo Romano è figlio di tutti e dimostra a tutti che il male va riconosciuto come tale, ne va limitata ogni esaltazione e, anzi, va asfissiato con una presenza capillare dello Stato e con un profondo lavoro sulla cultura dei più piccoli, delle famiglie, dei contesti vulnerabili.
Questa morte parla di disperazione: Santo Romano è stato abbattuto sotto i colpi di un sistema che premedita la violenza armandosi prima di trovare l’occasione di sparare. Il sistema violento muove contro un sistema pacifico e insieme disperato che non ha scudi.
Per fermarla, abbiamo bisogno di un nuovo approccio alla violenza che non la neghi sperando di chiuderla in un angolo, essa è esplosiva e può essere vinta solo con lo sforzo operoso di scardinarla dall’interno.
Servono servizi di rieducazione, servizi per la famiglia, supporto all’infanzia e all’adolescenza, servono investimenti contro la criminalità e controlli capillari del territorio, ciò senza contare che serve una giustizia tangibile, impedente e non semplicemente votata a un racconto ideale della rieducazione. L’intervento rieducativo deve prevenire il reato e lo Stato deve cogliere quella moltitudine di segnali che conducono all’impoverimento umano.
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