Già in piena pandemia Nicholas Christakis, scienziato sociale e medico alla Yale University, rispondeva ad alcune domande difficili sulla efficacia della chiusura delle scuole come misura anche proattiva del contenimento del rischio epidemico.
Cosa vuol dire chiusura proattiva delle scuole?
La chiusura delle scuole si definisce reattiva quando viene disposta in ragione di uno o più contagi certificati all’interno dell’istituto.
In genere l’utenza non si oppone alle chiusure reattive: il nemico è in casa e nessuno vuole incontrarlo faccia a faccia.
Diversamente è proattiva quella chiusura preventivata, scelta per evitare situazioni di criticità. Questa specifica chiusura si determina, di norma, in ragione di una previsione in crescita delle curve epidemiche e tenuto conto dei dati di diffusione del virus negli istituti scolastici di un territorio determinato.
Sono diversi gli studi che attestano l’efficacia della chiusura delle scuole in modo preventivo, ma questi studi (anche quelli più citati) si basano tutti sui dati di epidemie passate e sono sempre strutturati sui modelli matematici delle trascorse epidemie influenzali; non è nemmeno di secondaria importanza ricordare che si tratta di studi esteri (quasi sempre americani), ovvero applicati su territori, volumi di studenti, fasi di apertura e chiusura delle scuole, oltre che logistica delle stesse molto diversi da quelli italiani.
In ogni caso, almeno secondo la ricostruzione storico-statistica seguita da Nicholas Christakis, le epidemie passate e i modelli matematici sviluppati insegnerebbero che la chiusura delle scuole funziona per rallentare la propagazione dei virus e abbassare la curva dei contagi, oltre che per decongestionare il sistema sanitario.
La chiusura delle scuola funziona, almeno al livello statistico.
Si sa ancora troppo poco del ruolo dei bambini come vettori del Sars-Cov-2, tuttavia chiudere le scuole significa ridurre le occasioni di “pericoloso avvicinamento tra individui estranei” che la scuola e i suoi indotti implicano, basti pensare al trasporto e alle diverse forme di accompagnamento.
Per correttezza di informazione è, però, giusto sottolineare che calcolare oggi l’incidenza della riapertura delle scuole sull’incremento dei contagi è di fatto cosa difficilissima.
Lo stesso scienziato Christakis sottolinea che è molto più facile operare calcoli di questo tipo quando i contagi sono contenuti e il contagio è riferibile a un cosiddetto paziente 0.
Ragioniamo attraverso un esempio pratico: nella comunità incontaminata x arriva Tizio; Tizio risulta infetto ed è certo che abbia portato l’infezione dall’esterno all’interno della comunità. In questo caso di scuola è molto più semplice mappare i contagi.
Oggi, invece, il Covid sta diventando ubiquitario e i contagiati, spesso asintomatici, sono già all’interno della comunità, questo rende il tracciamento molto più complicato e impreciso. Quando i vettori del virus sono membri interni della comunità, trovare uno dei tanti e diversi positivi equivale solo a vedere la punta di un iceberg.
Traiamo alcuni altri dati da una recentissima ricerca pubblicata il 28 settembre scorso dal Centers for Disease Control and Prevention. Detta ricerca ha ad oggetto la trasmissibilità del Covid tra i bambini e gli adolescenti, nonché la valenza della chiusura delle scuole come misura preventiva e precauzionale.
Cosa attesta questo studio scientifico?
1 – A discapito dell’attaccamento di molti alla continuità sociale e scolastica dei più piccoli, lo studio parte dall’assunto che anche i bambini di età inferiore ai 10 anni possono trasmettere la SARS-CoV-2 in ambienti scolastici.
E questo dato (ovvero la contagiosità dei bambini) è cosa diversa dal fatto che tra i bambini in età scolare (più precisamente tra i bambini e i ragazzi di età compresa tra 5 e 17 anni) il COVID-19 faccia “raramente danni seri”.
2 – I numeri dimostrano che, quando le misure di mitigazione della socialità sono state allentate, si è registrato un considerevole aumento dei contagi tra i giovani: in una generica approssimazione, che non tenga conto della ampia territorialità in cui lo studio non manca di districarsi, possiamo dire che la COVID-19 è aumentata di circa tre volte tra le persone di età compresa tra 0 e 19 anni nel periodo da maggio a luglio ed era più alta tra i giovani adulti di età compresa tra 20 e 29 anni nel mese di luglio.
Ricordando che questo non è uno studio italiano (si vedano le considerazioni succitate), malgrado ciò questa traccia statistica suggerisce che i giovani potrebbero avere un ruolo importante nella cosiddetta trasmissione di comunità del virus.
3 – Studi mirati su alcuni istituti scolastici suggeriscono che la chiusura delle scuole può non essere una formula sempre valida, è valevole in quelle comunità con alti tassi di trasmissione del virus, mentre l’apprendimento in presenza può essere praticabile in sicurezza nelle comunità con bassi tassi di trasmissione della SARS-CoV-2.
Ciò senza togliere che l’apertura delle scuole può sempre coadiuvare un aumento della trasmissione in una data comunità, è, difatti, innegabile che l’ingresso di un virus a scuola, complice la fisiologia stessa degli istituti scolastici e il sistema di frequentazione degli stessi, resta sempre un pericolo serio.
Una condizione importante della apertura diffusa delle scuole sarebbe il continuo monitoraggio degli indicatori di diffusione della COVID-19 e i risultati dovrebbero sempre essere finalizzati alla valutazione delle strategie di mitigazione del rischio. E’ questa una delle conclusioni del succitato studio.
In pratica la chiusura delle scuole non va considerata solo in relazione ai bambini.
Molti sostenitori della didattica in presenza adducono a loro favore la scarsa mortalità e lesività del virus con riguardo ai piccolini e agli adolescenti, se questo è vero è altrettanto vero che la scuola è un incubatore perché gli studenti diffondono il contagio fuori, perché rischia di ammalarsi l’indotto dei lavoratori della scuola, come entra nell’area di rischio anche la complessa rete di interrelazioni che la scuola coinvolge intorno a sé.
Nicholas Christakis, nell’intervista a cui questo scritto tanto attinge, richiama un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Nature del 2006: utilizzando i modelli matematici di una pandemia influenzale, risulta efficace la chiusura delle scuole in modo reattivo (per la conclamata presenza nella comunità di un patogeno moderatamente trasmissibile). Secondo questo studio la chiusura della scuola riduce il tasso di infezione cumulativo di circa il 25% e ritarda il picco dell’epidemia [ovviamente nell’area di pertinenza] di circa 2 settimane.
Nessuno studio dimostra che la chiusura delle scuole possa incidere negativamente sulla propagazione del virus; tutti gli studi, all’opposto, dimostrano che in diversa misura la sospensione della didattica in presenza riduce la curva dei contagi e decongestiona le strutture ospedaliere.