Si chiamava Elena, aveva 22 mesi, stava andando al nido in auto con il suo papà.
Era una giornata normale, una di quelle tipiche mattine a cui noi tutti siamo abituati: portiamo i piccini a scuola ed andiamo a lavoro, a fare la spesa o dal parrucchiere.
Era un ordinario momento di semplice vita familiare. Ma per Elena è stato fatale, la piccola è morta.
Padre e figlia non hanno avuto un incidente stradale, non sono stati coinvolti in un fatalità imprevedibile ed incontrollabile, né sono stati vittime di atti di violenza … nulla è accaduto di diverso dall’ordinario se non il fatto che l’uomo, il padre, abbia dimenticato di avere con sé la bimba, di averla diligentemente accomodata sul suo sediolino per bambini e di doverla condurre al nido.
Così, a causa di tale dimenticanza, mentre la bimba era serenamente addormentata nella sicura seduta del seggiolino auto, l’uomo ha scordato di fare tappa all’asilo. La mente paterna ha rimosso la presenza della piccola e “assorta nei suoi pensieri” ha condotto il distratto padre al lavoro, alla sua scrivania, alle sue responsabilità ed ai suoi incarichi. Per cinque ore il pensiero di Elena “abbandonata” sul sedile posteriore dell’auto non ha interessato i ragionamenti dell’uomo che lavorava normalmente.
Tutto ciò è accaduto ad una famiglia ordinaria, rispettabile, serena, insospettabile. Ed ha devastato una quotidianità normale.
Elena è morta, i suoi organi sono stati espiantati e destinati ad altri piccoli in cerca di una speranza, tutti i trapianti sembrano aver avuto esito positivo.
Questa vicenda di cronaca sta agitando i cuori delle madri, ovunque se ne parla. Del resto dove c’è da “giudicare” la bontà di un genitore ci sono “sentenze” che volano, “considerazioni” che si azzardano e “opinioni” che si rincorrono.
Moltissime le mamme su Facebook che parlano di Elena e di suo padre, della mamma che difende il marito mentre porta in grembo un’altra creatura ed è prossima alo parto. Proprio su facebook mi sono imbattuta in una discussione che non mi ha lasciato indifferente. Il filo conduttore di molti post, commenti e dibattiti è uno: “Abominevole il padre che dimentica di avere con sé la figlia”. Diversamente la discussione in cui sono inciampata partiva da un incipit diverso: “L’uomo che è andato a lavoro scordando la bambina in auto è vittima di una fatalità … la dimenticanza è stata una disgrazia, uno sventurato incidente”.
Queste due posizioni sembrano più distanti ed antitetiche di quanto non lo siano in realtà. Entrambe partono da una analisi immediata del fatto. Personalmente ritengo che una lettura “oggettiva” dell’avvenimento sia limitativa, è chiaro che è irresponsabile, sbagliato, irragionevole e irrazionale dimenticare un bimbo in auto ed è altrettanto chiaro che sia un avvenimento “accidentale”, inusuale, non comune – fortunatamente – , involontario e straordinario.
Il “disgusto” verso chi commette un tale gesto impedisce di esplorarne il dolore ed il disagio che c’è a monte, così chi identifica il padre con l’ ”assassino della figlia”, pur fotografando una realtà, perde di vista l’origine del dramma e la causa della disattenzione. Ma anche chi confonde l’accaduto con un semplice incidente cade nella stessa trappola, ovvero non si addentra nei retroscena della tragedia. È questa coincidenza finale che accumuna le due posizioni riducendole ad una impressione immediata del fatto, una fotografia asettica.
Il padre non è un mostro, piuttosto è una vittima della vita … della vita moderna.
La nostra “modernità” ci costringe ad inseguire “valori” materiali e tangibili, traducibili nel benessere economico, identificabili nella affermazione e nel ruolo sociale. Per ottenere prestigio, lustro ed onore ci dedichiamo al lavoro ed all’accumulo di soldi. Questa dedizione alla produzione, al mestiere, al danaro, si presta a divenire una smania di “essere”, di apparire “perfetti e ricchi”; e può farsi stringente, snervante, stressante e frenetica. Ed ecco che la vita ci attanaglia, ci possiede e ci guida, si inverte l’ordine del comando: è l’esistenza a prevalere sull’individuo e ad orientarlo, la persona vive come “condotta” su un binario obbligato.
Tuttavia quella che è accaduta non è una fatalità. Personalmente mi domando se sia o meno il risultato di un modus vivendi. Dimenticare il bambino in auto equivale a “trascurare il fatto di avere il proprio figlio con sé”. Quel genitore che dimentichi di avere il proprio bambino accomodato sul sedile posteriore è chiaramente un padre o una madre che non usa parlare con il piccolo, non è solito cantargli la ninna nanna, non è abituato a guardarlo attraverso lo specchietto retrovisore. È, in altre parole, un genitore che non presta i propri pensieri alla sua creatura, quanto meno non lo fa nell’atto di condurla in auto.
Molte mamme sbirciano dallo specchietto retrovisore il bimbo, lo fanno con una certa costanza, anche inconsapevolmente, sono mosse da un naturale istinto: attraverso lo specchietto e quindi osservando il piccolo si rassicurano. La ricerca di sicurezza, assecondata e soddisfatta dal solo guardare il bambino, è un normale atteggiamento genitoriale che nasce dal “pensiero costante” rivolto al bambino, dalla attitudine a curarne il benessere.
Se quanto appena espresso è vero, allora la dimenticanza di cui parliamo, la morte di Elena, è forse il risultato di un malessere?
L’isolamento dal mondo – e di conseguenza dal dovere genitoriale di accompagnare la figlia a scuola – potrebbe dipendere dalla incapacità di sostenere il peso della costante attenzione al figlio, ovvero il peso della responsabilità?
Mi domando se chi non si volti, neanche per istinto, ad osservare il bimbo sul sedile posteriore sia comunemente poco avvezzo a “seguire” i comportamenti del figlio? Mi chiedo, cioè, se sia un atteggiamento solito “non prestare attenzione al bambino”, lasciarlo libero di fare.
Spesso noi mamme “evitiamo di commettere imprudenze” non per mera fortuna, ma, piuttosto, perché siamo abituate ad esercitare sui figli un ragionevole controllo, lo facciamo per ragioni di cuore e di istinto. Ecco che l’istinto in auto guida l’occhio attraverso lo specchietto retrovisore e tranquillizza il cuore materno. Controlliamo costantemente e normalmente anche se facendolo non ci pensiamo e non ce ne accorgiamo.
Per questo se un figlio tenta di afferrare un piatto di ceramica – come di norma tutti i bimbi fanno – e, malgrado ciò, il piatto non gli maciulla un piede, sarà certo anche merito della attenzione del genitore, oltre che della fortuna! Intendo dire che un genitore addestrato al controllo segue comunemente il figlio ed è quindi più facile che lo blocchi in caso di pericolo, sventando piccole o grandi tragedie.
Ciò non significa che un incidente domestico non possa accadere, tendenzialmente è normale, capita in quanto il bimbo in casa è libero e fisiologicamente deve misurarsi con i pericoli, alcuni da noi gestibili e controllabili, altri, diversamente, improvvisi e “fatalmente” imprevedibili. Ma il “pericolo della quotidiana vita casalinga o scolastica” è, permettetemi, IMPARAGONABILE all’accaduto: qui si tratta di dimenticare di avere il figlio con sé e di essersi assunti il compito di condurlo a scuola, contemporaneamente si evince che il bimbo non è stato osservato, non è stato “ammirato”, si presume che il genitore accompagnatore si sia calato nei suoi pensieri, sia stato catturato e posseduto dai propri percorsi mentali estranei e lontani rispetto al figlio.
Mi domando, a questo punto, chi di noi non è stanco? Chi non è esausto? Chi non ha cumulato notti insonni e stress? Chi non ha voglia di piangere di tanto in tanto, per la stanchezza e per la rabbia?
Tutto ciò, non giustifica in nessun modo una simile dimenticanza. Mi domando se a monte ci sia un malessere persino negato. In merito al quale, per parte mia, rifletterei anche sul perdono della mamma, rifletterei sulle giustificazioni che, appunto, potrebbero celare il disagio di cui non si è saputo parlare, che non si è voluto affrontare.
In molti sorridono increduli quando si parla di depressione paterna, come se il male dell’animo fosse una debolezza tutta femminile. Nella realtà, invece, la nascita di un figlio può sconvolgere anche l’animo maschile, mischiando le carte dei rapporti di coppia, gli equilibri della vita e chiedendo una nuova considerazione di se stessi come individui. E’ evidente che un padre dovrebbe mutare il proprio ordine di interessi ed aspirazioni ponendo il figlio al vertice della propria esistenza. Questo interesse primario al figlio coincide, inevitabilmente, con una assoluta ed incondizionata attenzione alla famiglia ed alla compagna.
Mi domando: gli uomini ne sono naturalmente capaci?
Probabilmente no, certamente i maschi hanno bisogno di adattarsi al ruolo paterno, calarsi in esso ed abituarsi al figlio, alla famiglia ed alle nuove dinamiche che essa comporta, spesso la “straordinaria rivoluzione della paternità” può tramutarsi in un disagio da sanare.
Dunque vale forse un sano e semplice appello alla introspezione, alla calma e al ricorso ai più semplici e puri valori familiari.