Lo scorso 13 febbraio una grande adesione femminile, popolare e pacifica ha animato le piazze italiane, teatro della manifestazione << Se non ora quando>>.
Come ogni movimento sociale, anche questo affonda le radici in accadimenti reali, nel vissuto del paese e nella sua condizione di fatto.
Come ogni espressione culturale, anche questa ha una ricaduta sociale, genera delle posizioni e stimola delle opinioni.
Vita da Mamma, dopo avere parlato della manifestazione, ospitando una opinione positiva e favorevole, torna sull’argomento e, in nome della democraticità che il nostro blog si propone di mantenere sempre, da spazio ad una diversa posizione apertamente critica e “interrogativa”.
Oggi la nostra sociologa, la Dottoressa Licia Falduzzi, ci parlerà dei movimenti sociali e dei cambiamenti culturali, nonché della manifestazione “Se non ora quando?”
Lo scorso 13 febbraio milioni di persone, soprattutto donne, si sono riunite in 117 piazze italiane, da Nord a Sud, per manifestare al grido “Se non ora quando?”.
Questo slogan, se qualcuno in questi giorni se n’è chiesta l’origine, nasce, per stessa ammissione del Comitato promotore della manifestazione, dal titolo del libro di Primo Levi “Se non ora, quando?” (in un più corretto italiano, con la virgola), pubblicato da Einaudi nel 1982. Vi si narra, con una sottile e amara comicità, la storia drammatica e avventurosa di un gruppo di partigiani ebrei russi e polacchi che, in una lunga epopea che va dal 1943 al 1945, combatte, percorrendo l’Europa in lungo e in largo, una personale guerra partigiana contro il tentativo di sterminio del nazifascismo. A sua volta, il titolo di questo romanzo è stato tratto dal Pirké Avoth (Le massime dei Padri, una raccolta di detti rabbini redatta nel II secolo d.C. e che fa parte del Talmud) da cui Primo Levi scelse, adattandole a ritornello di una canzone dei suoi partigiani, le seguenti parole: «Se non sono io per me, chi sarà per me? E quand’anche io pensi a me, che cosa sono io? E se non ora, quando?».
Le donne come gli ebrei? La loro lotta partigiana contro il tentativo di sterminio della loro dignità?
Ancora una volta in piazza, ancora una volta un movimento delle donne per le donne, ancora una volta un’occasione per rafforzare quel senso di ingroup che ci rende diversi dai nostri avversari, gli uomini?
Tutti i movimenti collettivi, di cui la manifestazione del 13 febbraio ne vuol essere un esempio, nascono dallo sforzo da parte di un gruppo organizzato per generare un cambiamento sociale oppure per opporsi ad esso, e prendono avvio da insoddisfazioni e critiche nei confronti dello status quo, l’ordine sociale esistente. L’insoddisfazione nasce dal rapporto tra condizioni oggettive e idee su tali condizioni, e, affinché essa si manifesti e si organizzi in un movimento sociale che traduca la visione ideale in realtà, devono esserci tre componenti: la sensazione che lo status quo sia ingiusto in riferimento alle norme ed ai valori della società, la convinzione che nulla si stia facendo per migliorarlo e, infine, la rappresentazione di come dovrebbe essere.
La manifestazione del 13 febbraio, una delle tante manifestazioni “mimosa”, è nata dalla critica, manipolata dai mass media e dalla propaganda, rivolta alla cosiddetta vicenda Ruby, che ha visto coinvolto il nostro presidente del Consiglio. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, dato che il nostro presidente ormai da mesi è famoso per la sua posizione nei confronti della donna e per le sue tutto fuorché divertenti barzellette sul gentil sesso.
Il caso Ruby ha risvegliato nelle donne l’insoddisfazione per uno status quo che, nonostante gli ormai affermati diritti di parità tra uomo e donna, le vede, dal punto di vista lavorativo, ancora relegate in posizioni subalterne, di scarso prestigio e con bassi stipendi. Ha risvegliato inoltre la rabbia nell’assistere ancora una volta all’uso strumentale che si fa del corpo della donna, anche da parte di se stessa.
Mi sono chiesta se non siamo noi donne a non voler cambiare o se sono davvero ancora gli uomini ad imporci il loro ideale di donna. Mi sono anche chiesta se in realtà a noi questo status quo stia davvero stretto o piuttosto ci piaccia. Io non credo nella subalternità della donna e nel predominio dell’uomo, non più, credo nelle scelte che ognuno di noi fa e credo nel cambiamento che ha origine tutti i giorni e non in quello sbandierato in un solo giorno rosa.
Tutti i movimenti sociali attraversano alcune fasi distinte. Si comincia con un momento di fermento sociale, si continua con una fase di intensa eccitazione popolare, si passa ad un periodo di organizzazione formale e si finisce in un processo di istituzionalizzazione. O almeno si dovrebbe finire così. Sì, perché non tutti i movimenti sociali finiscono per istituzionalizzarsi, e ciò dipende dal modo in cui i membri vivono quel movimento, e questa loro sensazione è influenzata dal grado in cui gli obiettivi del movimento rispecchiano effettivamente i loro valori e dalla misura in cui il movimento stesso è accettato o rifiutato dalla società tutta.
Bene, date queste premesse, mi chiedo ancora: ma a quale cambiamento aspira il movimento del 13 febbraio? e contro chi o che cosa ha realmente protestato?