Quando sono stata in Messico mai avrei immaginato che ne avrei scritto dei suoi figli su
di un blog per mamme.
Io li ho visti, i figli del Messico.
Quelli che aspettano fuori dai fast food qualcuno che butti qualcosa, e loro subito a frugare nei sacchetti, per una patatina, o un boccone non voluto. Li ho visti ai semafori, che facevano i saltimbanco, per recuperare qualche moneta. Non erano extracomunitari, né zingari, erano bambini messicani, vittime di un destino più infelice dei nostri figli, che invece l’hamburger lo buttano.
In Messico oltre 3 milioni di bambini tra i 5 e i 17 anni lavorano, invece di andare a scuola.
Questo vuol dire il 12,5% della popolazione infantile. Dei 3 milioni oltre un terzo ha meno di 14 anni. La legge federale messicana prevede che l’atà minima per lavorare sia 14 anni.
Un censimento del 2011 rivelava che 1,2 milioni di bimbi non andava a scuola. Su dieci, 3 erano bambine.
La situazione è ancor più drammatica nelle zone più rurali dello stato, dove i bambini che lavorano sono in percentuale maggiore che nelle città.
E a questi si aggiungono tutti i piccoli posteggiatori, quelli che lavano i vetri ai semafori, quelli che nei bus pubblici cantano, ballano, fanno i “mangiatori di fuoco”.
Senza pensare poi che, oltre a lavorare, questi bimbi vivono in modo disagiatissimo, spesso mettendo a repentaglio la stessa vita.
Lavorano tra i sassi, nell’immondizia, all’aperto e alle intemperie.
Vendono di tutto, con palchetti arrangiati, sono sciuscià (termine napoletano derivante da shoe-shine, lustrascarpe), lavascale, piccoli scaricatori.
Non frequentano la scuola, sono maltrattati, diventano violenti, e sono facile preda di delinquenza e sfruttamento sessuale.
Questi numeri sono stati riportati dal Modulo sul Lavoro Infantile dell’Inchiesta Nazionale di Occupazione e Impiego (ENOE 2011).
Nel 2011 era così, e anche nel 1997. E nel futuro?