Della Baia giapponese di Taiji ce ne eravamo già occupate qualche tempo fa qui.
Adesso che è settembre purtroppo si riapre la caccia, non solo in Italia, ma anche in questa comunemente chiamata Baia della morte, dove le barche partono per le battute di caccia ai delfini.
Quello che non ci dicono i delfinari comincia da qui, dalla Baia della morte.
Gli esemplari di delfini che normalmente abitano i parchi di divertimento provengono chiaramente da catture in mare. La maggior parte avviene in Giappone, dove questo tipo di “pesca” è legale, e serve anche per scopi alimentari.
Ogni anno, qui, muoiono oltre 20 mila delfini.
Una volta avvistato un branco i pescatori lo dirigono nella baia, gettano le reti e scelgono gli animali. Il destino dei migliori è la prigione dorata dei parchi acquatici. Quelli con la pelle più liscia, senza graffi o ferite. I sub addetti immobilizzano gli esemplari scelti, li issano con dei teli e li caricano sui camion diretti al Dolphin Resort Hotel, struttura dalla quale vengono poi smistati in tutto il mondo.
Qualche anno fa queste torture vennero tutte documentate nel lungometraggio dal titolo “The Cove” (dal nome del luogo dove vengono spinti i tursiopi per la cattura), che vinse l’Oscar come miglior documentario 2010.
Lo scorso 2 settembre sono stati catturati 6 esemplari magnifici. Generalmente, per assicurarsi la sopravvivenza fino a destinazione finale, vengono catturati il triplo dei delfini che sono commissionati, perché spesso gli animali, traumatizzati dalla cattura e dal viaggio muoiono.
E quelli che resistono si dovranno accontentare di mangiare pesci morti invece che cacciarli vivi loro stessi, vivranno in vasche minuscole, e molti si suicideranno, chiudendo lo sfiatatoio dal quale respirano.