La morte, un velo nero che improvvisamente si stende su anime doloranti, il vuoto, il nulla, l’inesistenza. Il senso della vita è annullato perché una vita è stata interrotta, un legame di mani che lentamente si separa, imprigionati nel travolgente vortice del dolore.
La speranza del ricordo diviene l’unica fonte per rimanere con i piedi per terra e desiderare che la persona defunta, ovunque essa sia, non provi neanche un centesimo della sofferenza che stanno provando i cari in quel momento; tuttavia, quando dolore e solidarietà si fondono, aumentano le speranze di ritornare a sorridere.
Una volta che un corpo è perito si può decidere di donare gli organi sani a chi ne ha bisogno, in modo tale da far affiorare nuovamente una nuova speranza di vita, con una parte del corpo non originariamente propria, ma che ha permesso a chi ne ha usufruito di ritornare a guardare il cielo prima ancora di divenirne un angelo.
Ovviamente questa decisione deve essere effettuata nel massimo rispetto nei confronti della famiglia del donatore e del ricevente, onde evitare che si inneschino anche dinamiche psicologiche che possono disequilibrare l’assetto di entrambi i nuclei.
- In primo luogo, il trapianto potrebbe divenire il mezzo per eccellenza affinché nasca un legame inscindibile nel quale la famiglia del donatore desidera incessantemente legarsi al “donato” per cercare di rimanere ancora in contatto con il loro defunto, per cui, potrebbe sorgere una ricerca perenne, continua, a volte assillante, perché l’unico modo per “vivere la persona defunta” è frequentare colui al quale sono stati donati gli organi.
- Un altro motivo secondo cui è necessario tutelare il benessere di entrambe le parti consiste in una fantasia, da parte della famiglia dell’espiantato, di proiettare la loro rabbia verso l’altra persona e i suoi cari, come se al di sotto delle parole scorresse la seguente affermazione: <<Grazie alla persona defunta a me cara, adesso il donatore sta bene, perché solo noi dobbiamo soffrire mentre gli altri si sono “salvati”?>>.
- Come risposta a tali fantasie aggressive, il trapiantato e i suoi cari possono nutrire un senso di colpa nei confronti dell’altro nucleo e quindi potrebbero adottare condotte solidali perché dettati dal bisogno di “espiare una colpa” e non da un desiderio vero e proprio.
Questi esempi rappresentano una prova lampante di come un trapianto d’organi possa procurare relazioni a volte preoccupanti.
Personalmente risulterei banale se consigliassi alla famiglia del defunto di provare a sorridere perché c’è qualcuno che “vive grazie ad una morte”, penso che in questi casi sia necessario ascoltare le proprie anime, la propria autenticità, perché se si è autentici con se stessi, possono crearsi relazioni autentiche che, se sono sempre improntate sulla chiarezza e sull’onestà, diminuiscono le probabilità che esse stesse divengano poco benefiche.
Il trapianto di un organo dunque rappresenta il prolungamento di una vita che si personifica in un altro corpo; questo è il caso in cui il dolore diviene mezzo per ripristinare un sorriso perduto; pertanto a volte il solo ascolto di persone disperate che vivono inghiottiti da un dolore accecante diviene uno strumento potentissimo d’aiuto, ma tale ascolto deve essere attivo, vivo, empatico, nel quale non è possibile vivere quella sofferenza, ma almeno immaginarla.
Dinanzi al fenomeno della morte, così come di tutte le sofferenze, è necessario accogliere il dolore trasmesso, per poi elaborare questa sofferenza e trovare un modo, qualunque esso sia, purchè benefico, per andare avanti, per la propria strada.