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Cosa scatta nella mente delle madri che uccidono il neonato: figlicidio

Sintomi di disagio e campanelli d'allarme delle madri che uccidono il neonato dopo il parto e nascondono la gravidanza, cosa osservare e come aiutare.

di Federica Federico

18 Settembre 2024

Madri che uccidono il neonato dopo il parto, i segnali di sofferenza

È possibile che una donna uccida il frutto del suo grembo dopo averlo dato alla luce e che arrivi al parto nel silenzio e nel nascondimento? Sì, per quanto atroce, ciò accade. Più di frequente, le madri che uccidono il neonato dopo il parto e che, prima ancora, tengono segreta la gravidanza sono donne abusate, abbandonate e già spezzate dalla vita

 

Oggi è la cronaca a riportare alla ribalta il crudele tema delle madri assassine. Infatti, il 9 agosto scorso a  Traversetolo, in provincia di Parma, vicino a una villetta di Vignale, è stato rinvenuto un neonato senza vita. Le indagini hanno amplificato l’orrore conducendo, pochi giorni fa, alla scoperta di un secondo bambino ormai ridotto a un misero scheletro, anch’egli sepolto in quel giardino degli orrori. Non è dato ancora sapere a che anno risale la nascita di quest’altro angelo (potrebbe essere venuto al mondo nel 2023, ma lo stabiliranno le indagini autoptiche).

 

 La madre di queste creature è una 22enne “di buona famiglia” e apparentemente senza problemi di sorta.

Secondo la Procura la giovane avrebbe partorito da sola in casa, nessuno, nemmeno il padre biologico del bambino, sarebbe stato a conoscenza della gravidanza. Dopo il parto, avrebbe chiuso il bimbo in un sacchetto per seppellirlo in giardino. È possibile che siano stati i cani di casa a far emergere il cadavere dalla buca superficiale scavata dalla mamma.

A fare la dolorosa e macabra scoperta è stata la nonna della giovane; rimasta sola in casa, si occupava dei cani mentre il resto della famiglia aveva intrapreso un viaggio oltreoceano, ovvero la giovane mamma killer è partita per l’America a sole 48 ore dal parto.

 

Cosa scatta nella mente delle madri che uccidono il neonato dopo il parto

Quando una donna nasconde la sua gravidanza, ammesso che non lo faccia per ragioni economiche o socio-ambientali, probabilmente sta combattendo conto “la vita stessa”. E il feto, che cresce in grembo, rappresenta nel modo più alto e completo il concetto di vita

 

Il bisogno di allontanare da sé la maternità, in aperto contrasto col corpo che si adatta e fa spazio alla vita, determina una pericolosa manipolazione della realtà per cui la gestante si comporta come se non fosse incinta.

 

Era una ragazza di buona famiglia” o peggio “Era una ragazza normale”, sono queste  le più banali e sminuenti definizioni delle mamme assassine che conoscenti, amici o vicini di casa spesso liberano in favore della stampa. Anche per la 22enne di Traversetolo sono state spese parole simili a queste. È facile per la società prestare attenzione soprattutto alle apparenze: le madri che uccidono il neonato dopo il parto si liberano anche di una porzione di loro stesse e questo non vuole essere giustificativo, piuttosto la società va chiamata a riconoscere i segnali dei disagi prima che possano diventare armi di distruzione.

 

La donna che uccide il neonato dopo la nascita spesso lo occulta in un sacchetto, molte volte lo getta tra i rifiuti e il bambino buttato via è più spesso nudo che vestito, questi agiti rappresentano la traduzione della turba mentale della mamma: per la partoriente assassina, quel bambino è rifiuto. L’omicidio in concomitanza del parto chiude la narrazione negata di quella gravidanza che la mamma ha nascosto al mondo e a se stessa.

 

C’è in questi atti una violenta negazione della vita del feto che viene trattato come materiale di scarto, disumanizzato, quel figlio è colpevole di un male ostacolante e limitante.

 
Chi sono le mamme assassine

Che donne sono queste mamme assassine?

In genere la negazione profonda del figlio o viene da un pregresso disturbo della donna o proviene da abusi, negazioni affettive, violenze fisiche o psicologiche che portano fragilità, generano ferite e sollecitano un profondo istinto distruttivo.

 

Per cui può anche serpeggiare in queste madri il convincimento profondo di essere inadeguate oppure, qualche altra volta, quello doloroso di mettere al mondo una creatura destinata a crudeltà e violenze. Quest’ultimo convincimento spingerebbe la partoriente a uccidere persino per salvare il figlio dalle sofferenze. Ovvio è che queste visoni sono distorte e frutto di una mente compromessa dal dolore.

 

Come evitare che tragedie simili accadano ancora

Se da un lato vanno sempre segnalati i casi di abbandono  violenze psicologiche, d’altro canto vanno attenzionati i profili fragili tendenti alla depressione, quelli distruttivi tendenti alla falsificazione di ogni sentimento, potenzialità e slancio vitale. Nelle giovani donne andrebbe indagato e, ove emerso, anche curato il senso di inadeguatezza.

 

Ciò che non può essere negato è la decomposizione del substrato sociale che non è più fondamenta della crescita umana della donna-mamma. Molto condivisibile la conclusione di Silvia Cavallone nel suo elaborato dedicato alla Sindrome di Medea (La sindrome di Medea: cosa spinge una madre ad uccidere il proprio figlio): “Le istituzioni sociali tradizionali – la famiglia, la comunità di appartenenza, la Chiesa – hanno perduto la loro forza rassicurante, la capacità di dare un senso alle azioni quotidiane e ai sacrifici di una madre. Il destino individuale e collettivo è percepito come nebuloso; non si sa quale sia il proprio posto nel mondo né se si abbia veramente un posto; e se non si ha un ruolo, non c’è neppure una strada tracciata da seguire.È come se la società richiedesse a chi è biologicamente, ma non psichicamente, una madre di accettare una serie di rinunce che risultano accettabili, anzi persino fonte di gioia, solo all’interno di un orizzonte di valori tradizionali che, malauguratamente, non sono più sentiti come attuali”.

Si parla di Sindrome di Medea quando una madre lasciata dal compagno\marito e accecata dalla gelosia, per vendicarsi, uccide i figli privando il padre del bene più grande, quell’amore che sopravvive alla rottura del rapporto. Ne abbiamo parlato in un approfondimento sul tema.



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