Il bambino nasce completamente dipendente dalla mamma e dal papà. Crescendo diventa fisicamente autonomo, ma con lentezza, basti pensare che prima dei 12-18 mesi non cammina e ha bisogno di tempo per raggiungere un’indipendenza linguistica che gli consenta di comunicare col mondo esterno in modo appropriato e funzionale.
In età scolare, intorno ai 6 anni, però, il cucciolo d’uomo è già membro della società. La scuola elementare, ovvero la “scuola dei grandi”, in modo particolare, favorisce il processo di socializzazione e quello di acquisizione di regole socio-comportamentali.
Tra i 6 e gli 8 anni il bambino sviluppa le prime relazioni mature fuori dal contesto familiare: ha i primi amici per la pelle, preferisce una maestra o un’attività rispetto ad un’altra e lo fa anche in considerazione delle interrelazioni che intrattiene nei diversi contesti.
Tra i 6 e i 10 anni il rapporto con il genitore è fortemente caratterizzato dalla pregnanza dell’esempio: il bambino assorbe il comportamento dell’adulto guardandolo mentre manifesta sé stesso e la sua personalità in modo attivo, ovvero muovendosi nel mondo.
I bambini imitano il comportamento dei genitori
A partire dall’età scolare, complice la socializzazione e, appunto, la presenza attiva e costante del bambino in micro-contesti sociali, dalla scuola alla squadra di calcio, il figlio diventa nella società del tutto simile al genitore.
Quando interviene il giudizio, ovvero: quando il genitore smette di essere solo specchio per il figlio?
Tra i 6 e i 9 anni circa il bambino matura una grande coscienza di sé, che piano piano mette in relazione e a confronto col mondo, mentre dopo i 10 anni il ragazzino si avvia verso la preadolescenza. È qui che perde quel rapporto col genitore di ammirazione e devozione: mamma e papà non sono più perfetti e diventano anche oggetto di critica.
I preadolescenti ci osservano all’interno della casa e anche nelle relazioni reciproche, quelle di coppia tra mamma e papà e quelle familiari tra nonni e genitori, esattamente come ci osservano all’esterno dell’ambito casalingo nei comportamenti fuori casa.
La comunicazione familiare, dopo i 6-8 anni del bambino, passa attraverso l’esempio che diamo nel comportarci bene dentro e fuori casa: dobbiamo essere adulti responsabili, sempre!
Conta molto il rapporto di coppia: è estremamente importante che mamma e papà non litighino e non si contraddicano davanti i figli; contano le caratteristiche del lavoro che si svolge, il modo in cui lo narriamo e l’etica del lavoro stesso che trasmettiamo loro; conta la capacità di essere positivamente di esempio come membro della società e come elemento della casa: in questo senso conta anche la forza nel mantenere la calma in tutte le circostanze della vita. Persino nel traffico (anzi, proprio in queste occasioni snervanti) dovremmo essere capaci di reagire in maniera sensata davanti ai nostri figli!
La comunicazione verbale, spontanea e fluida, tipica dell’età che va dai 6 agli 8 anni diventa più difficile dopo i 10-11 anni
Quel bambino che parlava sempre, come un fiume in piena, diventa nella preadolescenza spesso un ragazzino silenzioso che, più che guardare, osserva. Sappiamo, da genitori e da adulti maturi, che parlare, però, è fondamentale per instaurare con i figli un rapporto continuativo. Quindi, come possiamo aiutare il ragazzo ad aprirsi?
È importante che il bambino sin da piccolo impari a verbalizzare le emozioni ed è importante che mamma e papà non nascondano le proprie dinnanzi al figlio, riuscendo sempre ad esprimerle senza vergogna.
In tal senso se il bambino constata la capacità del genitore di provare emozioni apprende anche la naturalezza delle stesse e non ne ha mai paura!
Inoltre, è importante che all’interno della casa tutti rispettino gli spazi degli altri: avere considerazione per lo spazio vitale altrui vuol dire riconoscerne i bisogni, che equivale ad avere rispetto anche del sentire intimo di chi ci circonda. Queste abitudini aiutano a comunicare senza invadenza e senza sopraffazione.
Il gioco come strumento di comunicazione
In tutte le fasi della crescita del bambino il gioco aiuta a stabilire una connessione empatica: da principio questa è non verbale (o comunque non del tutto), man mano che il piccolo cresce e diventa prima un bimbo grande e poi un ragazzino, questa connessione si arricchisce di nuovi elementi, evolve e matura. Esattamente come la relazione fra genitori e figli. Non dovremmo mai fare l’errore di pensare che si è troppo grandi per giocare, in verità non lo si è mai e il gioco condiviso può diventare un ottimo alleato proprio in quella fase di passaggio alla preadolescenza, durante la quale sembra che qualcosa nel rapporto coi nostri figli si sia “rotto”.
In questa stagione, ad esempio, sedersi intorno allo stesso tavolo e mettersi alla prova con un gioco divertente diventa un’occasione per passare del tempo di qualità insieme, per parlarsi, raccontarsi e capirsi di più (come ispirazione cito Sfida i tuoi, che fa leva proprio sulla conoscenza reciproca fra genitori e figli, assottigliando la distanza fra le generazioni e stimolando lo sviluppo della connessione di cui si parlava prima). Insomma, giocare può far cadere i tabù nella comunicazione e portare anche i preadolescenti più ritrosi ad aprirsi con un sorriso.
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