La diffusione crescente dell’infezione da Covid 19 in Italia non poteva non aprire al problema del contagio in famiglia. La SARS-CoV-2 si diffonde all’interno dei nuclei familiari per una serie di ragioni oggettive:
- case poco generose in fatto di spazi, con conseguente difficoltà a garantire l’isolamento dell’infetto;
- bambini e anziani non autosufficienti, ma positivi;
- mancanza di strutture di accoglienza per i malati in quarantena che non hanno altro luogo dove stare se non la propria casa;
- mancato uso di presidi di protezione, in primis delle mascherine, anche in casa e sin dai primi sospetti di contagio.
Diffusione dell’infezione da Covid e contagio interfamiliare, qual è il ruolo dei bambini e dei giovani.
Bambini e giovani sotto i 20 anni si ammalano, ma, fortunatamente, sono molto spesso asintomatici, ovvero non presentano sintomi della malattia.
Questa condizione di latenza dell’infezione, fa sì, però, che la circolazione del virus abbia luogo in casa senza che nessuno nutra alcun sospetto.
Il Ministero della Salute lo precisa con chiarezza: “Si stima che queste categorie (bambini e giovani d’età inferiore ai 20 anni, ndr.) abbiano una suscettibilità all’infezione pari a circa la metà rispetto a chi ha più di 20 anni”.
Ciò non significa, però, che non siano veicoli di trasmissione potenzialmente diffusivi.
Il coinvolgimento dei bambini e dei giovanissimi nella veicolazione dell’infezione da Covid 19 dipende altresì dal loro modus vivendi:
- i bambini molto piccoli hanno difficoltà a a mantenere il distanziamento sociale e, proprio per questo, anche a scuola possono contagiarsi tra loro;
- i ragazzi sono istintivamente portati a sperimentare la socialità così, particolarmente negli spazi dove erano abituati a mettere fattivamente in opera il contatto sociale, è difficile che non corrano alcun rischio. Chi non ha visto gruppetti di amici vicini vicini fuori scuola, in villa o sul corso cittadino?
Covid contagio in famiglia – ne parla lo studio americano pubblicato sul Centers for Disease Control and Prevention.
In America è stato condotto uno studio mirato all’analisi del contagio in famiglia, partendo dal cosiddetto paziente indice (ovvero il presumibile primo membro contagiato, quello che ha portato il nuovo Coronavirus all’interno delle mura domestiche).
Con riguardo alla diffusione dell’infezione da Covid interfamiliare, è stata esaminata la portata del contagio tra le persone che vivono sotto lo stesso tetto: per un parente convivente malato quanti parenti conviventi si contagiano? Questa la domanda a cui dare una risposta.
Nel corso dello studio made in USA, sono stati campionati 191 membri di 101 famiglie, per ciascuna è stato individuato un paziente indice (per intenderci, possiamo chiamarlo anche il paziente zero della casa); l’osservazione quotidiana su suddette famiglie si è protratta per un tempo pari o maggiore a 7 giorni consecutivi. E il monitoraggio è partito dalla prima diagnosi di Covid 19 e ha osservato la diffusività dell’infezione all’interno dell’ambiente domestico.
Il campione ha incluso malati asintomatici o paucisintomtici con una età media è di 32 anni, in un range, però, compreso tra i 4 anni e i 76 anni, praticamente sono state toccate tutte le fasce d’età.
Lo studio americano precisa che nulla è stato dimostrato con riguardo a eventuali differenze circa la velocità di trasmissione in relazione all’età: non si può dire, allo stato delle ricerche, che i bambini siano più o meno contagiosi degli adulti, volendo esprimere il concetto in una massima sintesi.
Nel riportare questo studio come parametro per valutare la diffusione interfamiliare del Covid-19, va tenuto conto della logistica abitativa americana che non è paragonabile a quella italiana: in America gli spazi abitativi sono spesso più ampi di quelli nostrani.
Non è un caso, infatti, che le statistiche della ricerca consegnano un numero medio di membri della famiglia per camera da letto pari a uno; si attesta con questo dato che i pazienti zero delle diverse famiglie hanno, quasi tutti, potuto isolarsi in una camera esclusiva e dedicata trascorrendo solo poche ore in ambienti comuni.
Covid contagio in famiglia – l’importanza dell’isolamento
L’isolamento in una camera singola con un basso indice di convivenza con gli altri membri della famiglia risulta essere un valore determinante sulla diffusività del virus.
Il contagio in famiglia in caso di membro positivo al SARS-CoV-2 si riduce in relazione a seguenti fattori variabili:
- isolamento del paziente zero della famiglia sin dai primissimi sintomi di Covid-19;
- uso di un bagno dedicato o comunque massima attenzione alla disinfezione degli spazi dedicati alla cura della persona;
- uso delle mascherine nelle aree comuni della casa e rispetto delle debite distanze di sicurezza, anche l’ammalato deve indossare la mascherina nelle aree comuni dell’abitazione.
E’ intuitivo che i suddetti presidi anti-contagio non possono funzionare o comunque sono di più difficile applicazione quando la Covid colpisca un bambino o un anziano non autosufficienti.
Contagio in famiglia i numeri della diffusione del virus tra le pareti domestiche, le percentuali dello studio americano.
I risultati della ricerca americana dimostrano che, ove possibile, l’isolamento è il migliore argine al contagio.
Va precisato che l’individuazione del paziente zero della casa è sempre probabilistica, infatti, non è in nessun modo possibile accertare al 100% e senza margine di errore chi sia stato il 1° contagiato in una famiglia.
Il dato che si attesta con un buon margine di sicurezza è che la trasmissione domestica della SARS-CoV-2 si verifica comunemente quasi subito dopo l’esordio della malattia. I primi 5 giorni dall’insorgenza dei sintomi sono quelli più a rischio contagio.
Questo conferma quanto sia importante auto-isolarsi sin dai primissimi sintomi sospetti, in linea di principio dovremmo prestare attenzione anche a un banale mal di gola.
Una maggiore consapevolezza sulle dinamiche della trasmissione della SARS-CoV-2 in famiglia può aiutare a ridurre i contagi proprio laddove sono oggi maggiori, cioè tra le mura domestiche.
Lo studio americano ha coperto l’arco temporale aprile 2020 – settembre 2020, periodo in cui le 191 persone campionate sono state, a mano a mano, coinvolte nella ricerca.
Durante il suddetto periodo, i pazienti coinvolti e i loro familiari, compatibilmente con l’età, le competenze e il livello di autosufficienza, hanno compilato diari dei sintomi e per 14 giorni hanno auto-raccolto campioni salivari, nonché eseguito diversi auto-tamponi nasali (ricordiamo che la ricerca ha avuto luogo in America e non esiste uno studio italiano equivalente).
Tutto ciò premesso, il tasso di infezione secondaria registrato si è attestato sul 53%, praticamente si può sostenere che per ogni paziente malato e in quarantena domiciliare si ammala almeno un altro membro della famiglia convivente; circa il 75% delle infezioni secondarie è stato identificato entro i 5 giorni dall’insorgenza della malattia nel paziente indice, questo fa presumere che la trasmissione, cioè il contagio, possa avvenire sin dalla primissima sintomatologia.
Vale la pena ricordare che in questa parte della ricerca si analizzano i pazienti paucisintomatici restando assai più difficile una identificazione dei tempi di evoluzione della malattia rispetto ai pazienti asintomatici.