La donna immortalata in molte delle immagini che accompagnano questo scritto non può essere sconosciuta a nessuno nel nostro Paese: è la mamma di Marco Vannini e la sua è diventata un’immagine simbolo.
La mamma di Marco ha combattuto per più di 5 anni avendo cura della memoria e dell’amore di suo figlio, la sua è stata una battaglia in nome della giustizia.
Appena una settimana fa, mamma Marina aveva sognato il suo Marco: era bello ed era al mare, avvicinandosi alla madre le ha detto in sogno: “Andrà tutto bene”. Marina Conte e Valerio Vannini, la mamma e il papà di Marco stavano attendendo il definitivo verdetto della Cassazione, verdetto da poco pronunciato. Hanno scritto sulle foto del loro ragazzo: “Lotta per me” come se fosse Marco stesso a chiedere pace, del resto così è stato per tutti questi anni.
Il papà e la mamma di Marco hanno avuto giustizia
Marina Conte e Valerio Vannini hanno ricevuto la pronuncia che attendevano, ora, dopo la sentenza della Suprema Corte di Cassazione, potranno portare a Marco un mazzo di fiori così come gli avevano promesso: rose e girasoli, gialli e solari come era lui nei colori del volto e nella brillantezza dell’anima, questi fiori sono l’emblema della giustizia che finalmente sancisce la fine di una lunga battaglia.
La Suprema Corte di Cassazione ha condannato in via definitiva per omicidio il padre della ex fidanzata di Marco: Antonio Ciontoli sconterà 14 anni di carcere per omicidio con dolo eventuale; la condanna di estende a sua moglie Maria Pezzillo e ai loro due figli Martina e Federico, che sconteranno 9 anni e 4 mesi di carcere per concorso semplice attenuato dal minimo ruolo e apporto causale nella stessa tragica morte.
Questa donna si è districata tra perizie cariche di dubbi: dalla possibilità che il colpo di pistola che ha ucciso Marco sia stato sparato nella stanza di Martina e non in bagno, passando per la polvere da sparo presente nelle narici della fidanzata, anche se in misura insufficiente per comprovarne la presenza nella stanza del delitto, sino al ruolo dei familiari nella morte di Marco e al comportamento omissivo degli stessi.
“Finalmente è stato dimostrato quello che era palese fin dall’inizio. Se fosse stato soccorso subito Marco sarebbe qui. La giustizia esiste e per questo non dovete mai mollare“, così la mamma di Marco Vannini commetò, tra le lacrime, la sentenza di appello bis che già lo scorso Settembre scrisse la condanna a 14 anni di Antonio Ciontoli e a 9 anni e 4 mesi per la moglie e i figli. La Suprema Corte di Cassazione ha confermato le pene precisando solo l’imputazione dei familiari del Ciontoli (tutti condannati per concorso semplice attenuato dal minimo ruolo e apporto causale nella stessa tragica morte).
Su Marco i riflettori non dovrebbero mai spegnersi nemmeno ora che la parola giustizia è stata scritta.
Peraltro diciamo che è stata scritta la parola giustizia, anche se resta una parola grossa dinnanzi a un ragazzo di 20 anni morto improvvisamente.
Rispetto alla giustizia nel nostro Paese, qualcuno potrebbe dire che più spesso dovrebbero essere comminate pene di maggiore severità e durezza.
Sta di fatto che grazie alla lotta tenace e mai doma della mamma e del papà di Marco, lo scenario della morte di questo ragazzo di 20 anni si è palesato (dubbi a parte) come quello di un delitto volontario il cui esito nefasto era evitabile con un pronto soccorso del malcapitato giovane:
Marco Vannini è stato raggiunto da un colpo di pistola liberato nella casa della sua fidanzata Martina; i fatti hanno avuto luogo a Ladispoli nella notte tra il 17 e il 18 maggio del 2015. Una pronta assistenza, che in concreto è mancata per l’omissivo comportamento di chi era presente ai fatti, avrebbe salvato Marco dalla morte.
La Corte d’Assise d’Appello, dopo anni di battaglie legali, ha riconosciuto esattamente questo aspetto: la morte di Marco è una conseguenza del ritardo nell’assistenza che sarebbe stata prontamente necessaria dopo il suo ferimento. La Suprema Corte di Cassazione pronunciandosi cristallizza la verità di queste ricostruzioni.
La mamma di Marco Vannini, Marina Conte si è fortemente battuta per il riconoscimento dell’omicidio volontario.
“Mio figlio è morto in quella casa e loro non lo hanno soccorso. Se lo avessero fatto sarebbe ancora qui”, questo il convincimento portante che ha motivato la mamma di Marco Vannini in questi anni.
Seguendo la ricostruzione giudiziaria, che però non dobbiamo dimenticare essere costellata di dubbi, alle 23:00 del 17 maggio 2015 Marco si trovava a casa della fidanzata, si stava lavando quando Antonio Ciontoli entrava in bagno con l’intenzione di prendere due pistole che aveva riposto in una scarpiera.
La mamma di Marco Vannini ha sostenuto in un’intervista alle Iene che trova improbabile che in bagno potesse esservi qualcuno all’infuori della fidanzata, per quella che è la sua profonda conoscenza del figlio, Marco non si sarebbe mai mostrato nudo al suocero.
Secondo il racconto del Ciontoli, in quella disgraziata sera di maggio, da una delle armi sarebbe esploso un colpo accidentale che ha ferito Marco a un braccio; l’arma sarebbe stata puntata contro Marco “per gioco”, così dice l’uomo che oggi è stato condannato.
Ma perché la famiglia Ciontoli chiamasse per la prima volta i soccorsi ci vollero quaranta interminabili minuti e qualcosa già non torna. Due le chiamate al 118:
durante la prima chiamata, Federico Ciontoli, figlio di Antonio e fratello di Martina, diceva all’operatore che un ragazzo aveva avuto un mancamento per uno scherzo. Questo primo allerta ai sanitari (che partì, appunto, a circa 40 minuti dall’esplosione del colpo di arma da fuoco) non ebbe, però, seguito perché a prendere in mano la cornetta fu la suocera di Marco che troncò la conversazione tranquillizzando l’operatore: “richiamerà in caso di bisogno”.
Si sa per certo che in quella maledetta sera l’arma esplose il colpo alle 23:00, alle 6:00, cioè 7 ore dopo, Antonio Ciontoli chiamò i soccorsi, in questa seconda telefonata riferì di un ragazzo che si era infortunato nella vasca da bagno con la punta di un pettine.
L’operatrice sentì i lamenti e le urla di Marco, stava soffrendo da 7 ore, ora lo sappiamo.
L’ambulanza arrivò in soli 23 minuti, ma gli operatori del 118 non sapevano che quel ragazzo sanguinava e soffriva da 7 ore e 23 minuti.
Al posto di primo intervento di Ladispoli, il suocero di Marco confessò del colpo, dichiarandolo partito accidentalmente, in tribunale racconterà di non essersi reso conto della gravità della situazione e di non essersi nemmeno avveduto subito del fatto stesso che era partito un colpo.
Alle 3 del mattino del 18 maggio, Marco Vannini mise le ali e se ne andò in cielo.
La dinamica dell’accaduto venne già riconosciuta e definita nel 2018, quando la corte d’assise di Roma condannò Antonio Ciontoli per omicidio volontario con dolo eventuale a 14 anni di reclusione infliggendo, altresì, una condanna pari a 3 anni ciascuno a sua moglie e ai suoi due figli per omicidio colposo.
Questo verdetto non trovo, però, conferma in appello dove fu molto ridimensionato, con grave torto per la memoria di Marco. In appello anche Ciontoli viene ritenuto responsabile di omicidio colposo e condannato a soli 5 anni di carcere con la conferma della pena a 3 anni per i suoi familiari.
La mamma di Marco Vannini ha combattuto tenacemente perché prevalesse in Cassazione la tesi dell’omicidio volontario con dolo eventuale.
Il 7 febbraio 2020 la Cassazione annullava la sentenza d’Appello e ordina un nuovo giudizio.
I magistrati della Suprema Corte riconoscevano che che la morte di Marco Vannini è stata una conseguenza sopraggiunta e determinata dal ritardato soccorso rispetto alle lesioni causate dal colpo di pistola. Se i soccorsi fossero stati attivati prontamente Marco sarebbe vivo.
La Sentenza appena Pronunciata dalla Cassazione conferma tutto questo. I magistrati, quindi, legano la morte del giovane alla “mancanza di soccorsi che, certamente, se tempestivamente attivati, avrebbero scongiurato l’effetto infausto”.
Inoltre tutti gli imputati hanno tenuto “una condotta omissiva nel segmento successivo all’esplosione di un colpo di pistola, ascrivibile soltanto ad Antonio Ciontoli, che, dopo il ferimento colposo, rimase inerte, quindi disse il falso ostacolando i soccorsi”, queste già le motivazioni che hanno spinto i giudici a chiedere la revisione del processo di appello nel 2020.
L’intera famiglia Ciontoli, a vario titolo, viene riconosciuta come ”parte” della gestione delle conseguenze dell’incidente: tutti, anche chi secondo le risultanze processuali non ha sparato, si informarono su quanto accaduto, la pistola fu recuperata e probabilmente ripulita, lo stesso vale per il bossolo, eliminarono le macchie di sangue con strofinacci e solo successivamente composero una prima volta il numero telefonico di soccorso.
La mamma di Marco Vannini e il papà di questo giovane strappato alla vita troppo presto possono oggi elaborare il loro lutto nella consapevolezza che quello che hanno sempre sostenuto è stato ammesso e crismato in giudizio. Tuttavia questa vicenda deve essere ricordata, con tutte le sue ombre, perché nessuna battaglia per la giustizia sia mai fermata, perché nessuna morte resti oscura e soprattutto il caso Vanni va guardato come monito al sistema:
ci vogliono pene severe, ci vuole prontezza nella ricerca della verità, le madri, i padri e le famiglie non devono essere eroici, come lo sosto stati i genitori di Marco Vannini, devono essere tutelati, rispettati e accuditi da una giustizia pronta e veloce. Che Marco sia monito e memoria per tutti.
Articolo originale 8 ottobre 2020, aggiornamento e revisione alla luce della Sentenza della Suprema Corte di Cassazione 5 maggio 2021 ore 11:18