Come toglievano i bambini alle famiglie di Bibbiano? E quanti sono i bambini di Bibbiano coinvolti nell’inchiesta Angeli e Demoni?
Queste domande ossessionano l’opinione pubblica e quella comune e diffusa non è mera curiosità morbosa, ma è paura. La vicenda di Bibbiano ha ingenerato una diffusa paura e un sentimento di diffidenza verso le istituzioni preposte alla cura dei bambini, parte della società ha incominciato a temere che l’indigenza possa rappresentare una condizione sufficiente per togliere un bambino alla famiglia di origine. Niente di più sbagliato! L’indigenza può essere una condizione di bisogno dinnanzi alla quale il sociale porge la mano, tuttavia non è mai ragione sufficiente a sottrarre un bimbo al suo luogo di nascita.
Mentre alcune piccole vittime trovano giustizia e tornano a casa, c’è chi si pente e aiuta le indagini confessando come toglievano i bambini alle famiglie di Bibbiano.
Martina (nome di fantasia) torna a casa dopo essere stata sottratta all’abbraccio del papà, della mamma e della nonna, è una vittima innocente del mercimonio dei bambini che a Bibbiano ha coinvolto numerosissime famiglie, tante vite segnate per sempre.
La storia di Martina aiuta a comprendere praticamente come toglievano i bambini alle famiglie di Bibbiano, la raccontiamo perché in essa si individuano facilmente gli elementi nodali dei soprusi e delle vessazioni, delle falsificazioni e delle manipolazioni della realtà che hanno reso possibile cotanto orrore.
Martina ha 10 anni, le fonti stampa non precisano per quanto tempo è stata privata della sua famiglia, tuttavia è chiaro che il provvedimento fu messo in atto senza nessun preavviso. La nonna fu raggiunta da una telefonata in orario scolastico, dall’altra parte del telefono parlavano gli assistenti sociali e il messaggio era inequivocabile: Martina era stata considerata un minore affidabile e pertanto era stata assegnata alla responsabilità di una struttura sociale in attesa di una famiglia affidataria.
Non venga più a prendere sua nipote a scuola, non ce n’è bisogno: la bambina è stata trasferita in un altro istituto e ora penseremo noi a tutto. Non vivrà più con lei – dissero alla nonna.
Martina era sotto l’egida della nonna, era stata affidata alla donna dal tribunale dei minori perché nata dall’unione di due minorenni, papà 17enne e mamma 14enne. All’epoca del “sequestro sociale” di Martina i suoi genitori erano già separati, cioè non facevano più coppia fissa, ma la bambina coabitava col papà nella casa della nonna, aliud era carica di affetti e legami familiari sani.
Le motivazioni del “sequestro sociale” di Martina, emblema di come toglievano i bambini alle famiglie di Bibbiano:
i due genitori-ragazzini erano stati valutati dagli psicologi della Val D’enza come troppo giovani e immaturi per crescere la figlia, pertanto la piccola fu affidata alla nonna. Sin qui nulla osta alla cura della bambina a garanzia della migliore crescita psico-fisica della piccola.
Ad un certo punto, però, gli psicologi individuarono nell’ambiente familiare un pericolo:
in un disegno, che si è scoperto essere artefatto, Martina si ritraeva con delle lunghissime braccia posate in modo sospetto su un corpo adulto. Ciò bastò a ritenere la casa della nonna non sicura per la piccola.
La pronta denuncia della nonna diede il via a degli accertamenti importanti che sono rimasti inascoltati: la visita ginecologica ha scongiurato che la piccola potesse aver subito violenze di qualsiasi tipo e, d’altra parte, i colloqui con gli psicologi non attestavano mai tracce di traumi. Tuttavia Martina è lungamente rimasta lontana dai suoi affetti.
Sono 70 i fascicoli su cui la Procura lavora nell’ambito dell’inchiesta Angeli e Demoni. Come toglievano i bambini alle famiglie di Bibbiano e cosa ci guadagnavano?
Togliere i bambini a famiglie deboli e affidarli ad altre giudicate idonee fruttava aiuti mensili sino a 1.300 euro per bambino e in più le famiglie affidatari e erano indirizzate a percorsi di recupero psicologico affidati a precisi professionisti in specifiche sedi e regolarmente retribuiti e fatturati, ovviamente con rimborsi spese per le famiglie. Un giro d’affari che non giustifica nemmeno lontanamente l’orrore a cui i bambini sono stati esposti.
Tutto questo dà la misura della pochezza a cui il genere umano sta riducendo se stesso.
La recente confessione di un ex assistente sociale della Val D’enza attesta come toglievano i bambini alle famiglie di Bibbiano.
Una precisazione è doverosa, l’assistente sociale “reo confessa”, attualmente accusata di falso ideologico, frode processuale, violenza privata e tentata estorsione, ha sì contribuito alle falsificazioni documentali che hanno interessato l’inchiesta, ma aveva già chiesto e ottenuto il trasferimento perché in disaccordo con quel sistema viziato che le “imponeva” di compiere atti che le sembravano già inappropriati e iniqui.
La confessione della donna fa emergere le responsabilità degli assistenti sociali:
venivano confezionate relazioni falsificate con lo scopo di far apparire l’affidamento come la soluzione da prediligere, senza lasciare spazio a più idonee e possibili forme di attenzione e aiuto del bambino.
L’assistente sociale ha reso le sue confessioni al Giudice per le indagini preliminari:
“È vero, ho modificato quelle relazioni ma l’ho fatto a causa delle pressioni che subivo dai miei superiori. Mi sono adagiata per del tempo ma poi non ce la facevo più: per questo ho chiesto il trasferimento. Io ho sempre pensato di muovermi nella massima tutela per i minori […]
Il motivo per cui ho deciso di fare richiesta di trasferimento dal servizio che stavo svolgendo a un altro servizio, sempre nella pubblica amministrazione, è che mi ero resa conto che il servizio sociale utilizzava come criterio principe il controllo invece dell’aiuto […]
Laddove certe problematiche si sarebbero potute risolvere con il supporto alle famiglie, si prediligeva comunque la valorizzazione degli elementi che potevano portare a una richiesta di trasferimento del bambino a sede diversa da quella familiare.
Nel corso del tempo ho metabolizzato il funzionamento del sistema. Il lavoro che facevo all’ interno dell’equipe veniva criticato dai miei superiori. Nelle relazioni che sarebbero poi state mandate alla magistratura c’era sempre una predilezione per una visione dell’educazione del bambino scollegata dalla famiglia. Non veniva ritenuto equo e adatto il supporto all’interno della famiglia
” (parole riportate da La Verità).
A completezza di informazione va detto che questa confessione è valsa alla donna la revoca della misura cautelare, sicché l’assistente sociale pentita potrà tornare a lavorare, opera attualmente in Emilia.