“Non chiamate le donne in stato di gravidanza “mamme”, questa parola potrebbe offendere i transgender”, se questa dichiarazione vi sembra paradossale o assurda sappiate che non si tratta di una beffa né di un’invenzione, è una direttiva data dalla BMA, ovvero la British Medical Association.
La direttiva è stata indirizzata, all’inizio di quest’anno, ai 160.000 membri medici della BMA, lo scopo sarebbe quello di uniformare le terminologie sociali ai costumi.
Come non si dovrebbe più parlare di mamma e papà ma di genitore uno e genitore due, così non si dovrebbe utilizzare più nessuna terminologia a rischio discriminazione o offesa. Questo, almeno, il parere della BMA.
Dire “mamma” o “donna incinta” riferendosi a un soggetto di genere femminile e pertanto in grado di partorire potrebbe offendere i transgender o, quantomeno, potrebbe accadere seguendo la logica appena descritta.
L’offesa nascerebbe dal fatto che solo il genere femminile può rimanere incinta e partorire ovvero essere mamma e chi mescola in sé i caratteri dell’uomo e della donna potrebbe soffrire profondamente della sua impossibilità ad accogliere nel ventre un figlio.
Pertanto lo stato naturale delle cose, ovvero l’anatomia umana, finirebbe col confligere con la realtà transgender e potrebbe offendere una minoranza.
Originariamente la parola transgender individuava quel movimento di pensiero secondo il quale il genere umano non è divisibile in soli uomini e donne esistendo un certo numero di persone con un orientamento indefinito, ovvero capaci di combinare caratteristiche del genere maschile e di quello femminile senza identificarsi con decisione e precisione in nessuno dei due generi.
Stando a quanto affermato dal sindacato professionale dei medici nel Regno Unito prima di chiamare “mamma” una persona incinta si dovrebbe fare attenzione all’orientamento sessuale della stessa e di chi le si muove intorno.
Volendo questa questione etica è equiparabile al dibattito che nasce se e quando in una classe di scuola (di qualsiasi genere e grado) vi sia uno studente con due mamme o due papà, nel qual caso l’oggetto del dibattimento è il nome con cui appellare i genitori (non definibili come madre e padre ma piuttosto da definirsi, almeno in linea teorica, come genitore uno e genitore due).
In molti hanno ritenuto che nell’evidenziare il pericolo di offendere i transgender, si porti avanti una “battaglia contro la normalità”.
Più modestamente il vero rischio è quello di generare una nuova e diversa offesa a danno delle tante donne che sono nate fisicamente capaci di procreare e che a un certo punto della vita hanno voluto, deciso e operato per conquistare il titolo di “mamme”.
Laura Perrins, ex avvocato, mamma e donna che si batte per i diritti del genere femminile, ha contestato la posizione della BMA, lo ha fatto attraverso le pagine web di The Conservative Woman. Lì ha scritto: «È una misura contro la scienza, contro le donne e contro le mamme. Tutti i dottori sanno che solo le femmine possono avere bambini. Dire altrimenti è offensivo e pericoloso. Questa decisione offenderà le donne di ogni parte del paese».
Quella contemporanea è diventata una società estremamente garantista, il pericolo è che le garanzie che vengono riconosciute alle minoranze si estendano, molte volte solo formalmente, oltre le garanzie assicurate alla maggioranza delle persone. E’ come se la “normalità” dovesse essere pronta ad accogliere anche a rischio di abbassare la tutela comune. Un nome è tale come indicazione di massima e tale dovrebbe rimanere perché il rispetto potrebbe ben misurasi in altri modi.
A offendere i transgender più che un nome dovrebbe essere l’imbarazzo, l’indecisione nel rapportarsi a tutti, la formalità ostinata e la chiusura, queste cose e i valori che portano con esse sono forse più importanti di un nome comune di persona!