Mia figlia a 7 anni, suo padre ed io la portiamo al parco, alla scuola di danza, alle feste, a fare lunghe passeggiate. Ogni abbraccio con lei è una promessa di futuro e un debito di speranza. Queste emozioni quotidiane sono state le prime cose a cui ho pensato quando ho appreso che una bambina kamikaze di appena 7 anni era stata usata come arma all’interno di una stazione di polizia a Damasco:
lo scorso 16 dicembre una bimba entra in un presidio della polizia e chiede di andare in bagno confessando di essersi persa. Mentre gli agenti le fanno strada verso la toilette la piccola viene fatta esplodere con un telecomando controllato a distanza. Sotto il giubbotto la jihad aveva nascosto materiale esplosivo e quella piccola era una bambina kamikaze.
La stampa internazionale ha diffuso le immagini dell’impatto della bomba all’interno della stazione di polizia, un cumulo di resti umani (oscurati pietosamente dalla tv locale) è tutto quel che resta dalla bambina kamikaze.
In queste ore circola un video spietato: i genitori baciano la figlia di 7 anni prima di mandarla a morire.
I jihadisti hanno diffuso le immagini della preparazione alla morte della bambina kamikaze.
Le autorità stanno lavorando sul girato per l’identificazione del commando che ha armato e mandato a morire la piccola. La stampa estera afferma che quella che si vede nel girato è presumibilmente una famiglia, certamente una famiglia di estremisti jihadisti.
A quanto pare il papà spiega alle figlie il destino dell’immolazione e la mamma abbracciandole afferma che l’età non conta rispetto alle sorti di un jihadista.
La società contemporanea e il nostro occidente hanno saputo crescere gli uomini e le donne nel nome della libertà. La guerra, che resta per noi lontana, è un concetto che stentiamo ad accettare proprio perché rispetto ad essa la libertà viene coartata e persino viene messa a rischio la vita, laddove la gestione della propria persona e della propria esistenza è la prima delle libertà possibili.
In quest’ottica, in nome della libertà, è assolutamente da respingere e rifiutare il concetto di terrorismo inteso come guerra intestina, violenza improvvisa, attentato nascosto e irruento.
Il video in cui una bambina kamikaze viene preparata a morire e uccidere, a seminare violenza e dolore, lascia un senso di vuoto assoluto e sembra inaccettabile.
Guardando questi genitori (le autorità presumono che l’homo sia il padre, mentre la donna è certamente la mamma) tutto sembra ruotare intorno a un convincimento di giustizia ideale e assoluto. Folle se si considera la libertà per come noi la viviamo.
La convinzione di fare giustizia attraverso la violenza e la certezza di essere ricompensati per la morte sono idee tanto radicate e forti da divenire capaci di valicare ogni vincolo familiare.
Perde valore persino la cura, la cura intesa come sentimento supremo e considerata come l’istinto che il genitore dovrebbe sempre nutrire a tutela del figlio.
Perde valore anche il dritto del bambino al futuro, diritto che l’adulto ha il compito di preservare massimamente.
“L’età non conta, tutti siamo jihadisti e dobbiamo fare questo”, afferma la mamma della bambina kamicazze, come se aver partorito e cresciuto una figlia perdesse ogni valore rispetto all’onore di vederla immolata.
Eppure dovrebbero bastare i poveri resti di questa creatura innocente a chiarire tutta la verità: la morte è solo dolore e non c’è ragione che giustifichi tutta questa violenza.
Un bacio al padre, uno alla madre e uno alla sorella, una preghiera e un ultimo indottrinamento di morte al suono di “Allahu Akbar”, ovvero “Allah è grande”. Ma qualche cosa non torna in questo quadro di disperate certezze in cui rinunciare a un figlio è persino giusto: non tornano gli occhi di queste bambine. Guardateli e giudicate voi stessi:
Nota per il lettore: la foto di copertina non immortala la bambina kamikaze, è un’immagine di repertorio. Le altre foto ed il video, al contrario, sono tutte immagini della piccola e della sua famiglia.