Un figlio non è un diritto ma è una naturale esperienza di vita. Come tale impone alla madre e al padre di mettere se stessi (tutto di se stessi: corpo, mente, energie, tempo e anima) a disposizione della propria creatura e nella costruzione della sua vita.
Un figlio non è nemmeno una proprietà, egli è una persona che, presto o tardi, apparterrà al futuro del mondo.
Da qualche tempo anche in Italia si è acceso il dibattito sull’utero in affitto, si tratta di un tema molto profondo, importante e delicato, etico, culturale e sociale, prima ancora che legislativo.
La domanda che le nuove frontiere della scienza hanno aperto è spietata e complessa: la maternità surrogata (o utero in affitto) è o non è una possibilità da concedere a chiunque voglia avere un figlio?
Senza considerare che, sulla faccia opposta della medaglia, resta la donna e il suo corpo: si può correre il rischio che il ventre materno divenga merce? Esiste la possibilità di lasciare alla donna la facoltà di donarlo? Si potrebbe controllare con validità e certezza che una donazione non celi un diverso contratto?
Cos’è la maternità surrogata o il cosiddetto “utero in affitto”?
Da un punto di vista medico, l’utero in affitto è una forma di PMA (procreazione medicalmente assistita):
una donna presta il suo corpo (nella fattispecie il suo utero) alla gestazione e lo fa per conto di una o più persone (i titolari biologici di ovulo e\o liquido seminale).
Queste persone, chiamiamole pure gli affittuari dell’utero, saranno il genitore o i genitori del nascituro, mentre la proprietaria dell’utero, chiamiamola pure il locatore del grembo, non avrà titolo genitoriale sul bambino che metterà al mondo attraverso il proprio corpo.
Nella pratica concreta, dunque, l’utero in affitto si traduce nella ricerca materiale di un ventre umano che divenga culla di una vita “commissionata”.
Le ragioni per prendere in locazione e per concedere in uso l’utero sono diverse, tuttavia non si può trascurare il rischio di mercificazione della vita e del corpo della donna. Infatti l’esito ultimo di questo processo è la materiale costruzione di un figlio nel ventre di una “madre portante”:
il bambino sarà generato con l’impianto di ovuli o semi oppure di ovuli e semi del genitore biologico nell’utero della mamma in affitto.
La logica suggerisce che la scelta dell’utero in affitto è interesse prevalente di chi non può avere bambini naturalmente (ovvero col proprio corpo) e pertanto si avvantaggia di un pancione in prestito.
La questione etica fonda sulla considerazione e qualificazione di questo pancione: è una culla umana al servizio della vita o è un mezzo materiale a soddisfazione di un bisogno che viene oggettivizzato e monetizzato?
L’utero in affitto “risolve il problema dell’infertilità” delle coppie costitute dall’amore di soli uomini ma potrebbe supportare anche tutte le donne che fisicamente non riescono (per qualsivoglia problematica) a rimanere incinta o a sostenere i nove mesi di gestazione.
Quali sono i limiti etici dell’utero in affitto e quali i dubbi legati allo sviluppo psicologico ed emotivo del bambino che sta nascendo in un pancione in prestito?
Dal punto di vista etico, si discute innanzitutto sul mercimonio del corpo femminile: l’utero in affitto rischia di trasformarsi nell’acquisto a caro prezzo di una prestazione fisica e umana non commerciabile, ovvero l’accoglienza di una vita nel corpo materno.
Ciò implicherebbe anche il pericolo di un “commercio di figli commissionati” con l’alto rischio di fare della maternità surrogata un privilegio da ricchi a tutto danno delle donne bisognose.
Sembra stridente parlare di mercimonio del corpo mentre si ha a che fare con la vita, la nascita di bambini e la maternità. Eppure questa dicotomia è parte del dibattito sulla maternità surrogata.
Sussiste il fortissimo rischio che la “madre portante” e il suo utero in affitto divengano una macchina con un prezzo di mercato.
Ed è tautologico sottolineare che sarebbe inaccettabile il sacrificio di una donna commercializzata a carissimo prezzo.
Già oggi chi può permettersi una “madre portante” è chi può volare lontano, dall’altra parte del mondo, e può investire molto danaro sull’affitto di un utero.
Pertanto risulta non aleatorio il pericolo che la gestazione di appoggio si trasformi in un lusso per pochi, addirittura andando a discapito di chi non ha le possibilità economiche o di chi è talmente povero da mercificare persino il suo corpo pur di sopravvivere.
Garantire l’eticità dell’utero in affitto, è possibile?
La maternità surrogata è dunque una medaglia con due facce molto diverse:
- da un lato c’è il diritto\bisogno di avere un figlio neonato e caratterizzato dal DNA familiare o con almeno una parte di patrimonio genetico della coppia;
- dall’altro c’è la scelta della “madre portante”.
E’ questa seconda faccia della medaglia la più “fragile”, potrebbe essere persino “disperata”: se la donna vendesse il corpo per bisogno si realizzerebbe un abuso emotivo della sua intimità, una violazione psico-fisica difficile da superare. Inoltre il vizio dell’acquisto del corpo potrebbe portare a conseguenze molto serie e non scevre da ricadute sociali lesive e penetranti.
Per riflettere sul ruolo chiave dell’utero in affitto (che in quanto tale è l’oggetto di tutto il dibattito) basterà pensare alle motivazioni che potrebbero spingere una donna a prestare il suo corpo per permettere la nascita di un figlio di altri.
Quello che nasce dalla “madre portante” non è suo figlio, per patto pregresso (o per contratto) è un figlio “costruito” per altri genitori. Lo sforzo mentale della donna deve essere grande e finalizzato: il bebè non deve mai appartenerle, nemmeno quando lo culla da dentro.
Perché una “mamma” dovrebbe vivere attraverso il suo corpo la nascita di un bambino su commissione?
Diciamo subito che l’utero non è considerabile come un organo meccanico che, una volta fecondato, fa crescere un bambino e lo “sforna” attraverso un processo fisiologico.
L’utero non funziona senza compromissioni emotive e implicazioni emozionali. Esso è quella parte della donna che coinvolge e connette corpo, mente e anima.
Il discorso sull’utero in affitto, soprattutto rispetto al pericolo di mercimonio, rintraccia la considerazione del corpo femminile e non è lontano da tutte quelle riflessioni che sono state fatte storicamente ogni volta che si è discusso del commercio dell’intimità della donna, ma anche della pratica dell’aborto.
Impossibile non considerare il fatto che la donna diventa “Mamma” sin dalla fecondazione.
Nel momento in cui l’utero si feconda la donna diventa “mamma”, non è una questione nè meccanica nè legale, si tratta di sentimenti!
E’ mamma la donna posseduta dal bambino, è mamma quella donna incinta che per la sua creatura incomincia una nuova vita fatta di cambiamenti fisici ed emotivi, di rinunce, di abnegazione e spesso anche di sofferenze e disturbi.
Anni di studi scientifici e milioni e milioni di testimonianze di donne e madri confermano che tra mamma e bebè si crea un rapporto affettivo sin dalla pancia, sin dalla scoperta della gestazione, sin dai primi sintomi fisici di gravidanza.
Se si confida nella verità dell’assunto appena espresso, ovvero nell’idea che mamma e bambino saldano il loro rapporto, anche emotivo, fin dalla vita pre uterina, allora il figlio nato dalla maternità surrogata rischia di restare subito orfano.
Vista in quest’ottica, se è orfano quel bambino che perde l’abbraccio della madre che lo ha cullato nel ventre allora è tale anche il neonato che nasce e lascia la mamma surrogata. Questo bebè, immediatamente dopo il parto, subirebbe il trauma dell’abbandono, del distacco da quel complesso di impulsi fisico-emotivi che lo hanno cresciuto per i precedenti 9 mesi.
Chi nasce da un utero in affitto perché dovrebbe salvarsi dal trauma del distacco madre-figlio?
I sostenitori della maternità surrogata danno prevalenza all’accoglienza che il bambino ha tra le braccia dei genitori biologici e negano qualsivoglia trauma da distacco.
Per parte loro quel bimbo nasce nell’amore della sua famiglia “biologica o legale” e l’affetto che lo ha voluto generare compensa pienamente tutto ciò che ha rappresentato la “mamma portatore”.
Seppure il bimbo non sentisse la mancanza della gestante, la maternità surrogata ha come risultato anche una donna-mamma che per motivazioni varie (eventualmente anche economiche), dovrà gestire il post parto da sola e senza il bambino a cui ha dato la vita.
Ecco un’altra possibile lacerazione discendente da questa particolare PMA.
Io sono una mamma e prima di esserlo diventata con gli occhi e con le braccia, con le poppate e i pannolini, con il pianto e le carezze, lo sono stata col mio corpo, con la mia anima, con i miei imbarazzi fisici, con le mani sulla pancia a chiedere ancora un calcio, col sudore e la paura mentre la vita doveva nascere e non contava alcun dolore se non la gioia del nostro primo incontro.
Quando sono nati i miei figli sono nata pure io e credo che ogni madre morirebbe se le fosse sottratta la possibilità vivere per la parte migliore di sé, quella a cui ha dato la luce. Ma questa è solo la mia personalissima opinione di mamma.
Resta il rispetto per chi farebbe di tutto pur di avere un bambino … quel sogno che non arriva, quel traguardo che non prende forma.
Utero in affitto: Sì o No? Qual è la risposta giusta?
Vero è che un figlio, un essere umano nato dalle carni di una donna, non si può definire un prodotto. Difficile credere che dopo la nascita possa automaticamente diviene di chi lo cresce o di chi lo ha commissionato, perdendo subito ogni legame con la sua mamma-utero e liberandosi, improvvisamente, da qualsiasi coinvolgimento emozionale.
Allo stesso modo è difficile credere che una donna possa commercializzare il suo copro senza essere già una donna sofferente, ai margini, disperata o in qualche modo “costretta” dalla vita. Ma anche questa resta una mia personalissima opinione da mamma.
Ad onor del vero va aggiunto che il figlio, proprio in ragione del legame profondo che lo unisce a chi lo genera, conserverà per tutta la vita il diritto alla ricerca delle sue origini, fossero anche rintracciabili in un utero in affitto.
E se nell’adolescenza o nella pre-adolescenza il frutto della maternità surrogata chiedesse al genitore “biologico o legale”: – Chi è la mia mamma?
Si potrebbe riflettere, forse, sul fatto che vi sono nel mondo bambini già orfani e assai bisognosi di un luogo sicuro in cui crescere e sanare le propri ferite, bisognosi di braccia in cui riparare le paure, bisognosi di genitori da fare propri in nome di un amore altruista!
Esiste un modo che dà al cuore la possibilità di superare i limiti del corpo e ha un nome dolce e antico: adozione. L’adozione dimostra che “i figli sono di chi li cresce”.
In termini di risultato sperato (alla stessa stregua dell’utero in affitto) l’adozione dà una famiglia a un bambino, ma, molto diversamente dalla gestazione d’appoggio, non corre il rischio di creare un nuovo orfano per arrivare ad avere un figlio. Da sempre il percorso adottivo è pensato per consentire a ogni bimbo di godere dell’amore di un papà e di una mamma.
In un ampio respiro etico ed ideale, l’amore genitore dovrebbe dimostrare al bambino che il bene cura il male e non lo provoca, lo limita e non lo stimola, lo argina e non lo eccita.
L’eticità che il concetto di utero in affitto potrebbe mettere in crisi ha facoltà di essere recuperata se la prestazione dell’utero fosse una liberalità. Ma è utopistico credere che le parti non sfuggano a un vicolo di gratuitè e eventualmente si può pensare che la società riesca a farsi carico di un preciso controllo dei rapporti tra i soggetti in causa?
Articolo aggiornato al 6 Gennaio 2020