La mamma è colei che protegge il proprio figlio a costo della propria vita, ad ogni costo, in ogni circostanza.
Questa affermazione stride ancora una volta con fatti di cronaca e convinzioni religiose che mettono a dura prova questo pensiero.
La tematica controversa “testimone di Geova e trasfusione” ne è un’enensima riprova.
Il personale medico e sanitario non può che prendere atto e decretare con rammarico un ennesimo caso in cui le fede religiosa porta ad una fine tragica, in questo caso si tratta di un doppio dramma che si è consumato in un ospedale di Sydney.
Ne dà notizia e ne istituisce una sorta di dibattito interno l’International Medicine Journal, definendo la vicenda come “evitabile”. I dottori lo descrivono come un fatto straziante che ha avuto una pesante ripercussione anche sul personale e le linee guida etiche che si sono dovute rispettare.
La giovane mamma di 28 anni era stata ricoverata al settimo mese di gravidanza per lo sviluppo di alcune complicanze. Le indagini effettuate avevano rivelato una forma di leucemia.
La storia medica insegna che l’80% delle donne incinte che soffrono di leucemia promielocitica acuta guariscono da questa forma di cancro con delle cure appropriate e i loro bambini nascono sani, con delle buone prospettive.
Purtroppo però vi è una difficoltà che nessun medico, allo stato attuale, può risolvere e riguarda l’incompatibilità tra testimone di Geova e trasfusione.
La religione della mamma le proibiva di accettare le trasfusioni sanguigne necessarie per il trattamento che avrebbe salvato lei e il suo bambino.
Il dibattito tra eticisti, dottori ed amministratori è infuocato. Molti sostengono che si dovrebbe garantire il trattamento almeno per il bambino e prevedere un reato che ponga una scelta del genere, tra testimone di Geova e trasfusione, sul piano di un crimine nei confronti del feto in utero.
I termini della questione si fanno ancora più complicati se frapponiamo anche i vari punti di vista che inquadrano il concepito, l’embrione e il feto come soggetti giuridici tutelati o tutelabili a partire dal 90° giorno dal concepimento ma con delle limitazioni spesso di difficile interpretazione. La questione dunque non è univoca, né priva di ombre e non uguale a livello internazionale, insomma è una materia molto ma molto complessa con implicazioni ramificate in ogni campo.
La soluzione ottimale e da protocollo sarebbe stato un cesareo per estrarre il bambino e consentire poi alla mamma di effettuare la chemioterapia necessaria
ma, a quel punto, la vita della madre sarebbe stata segnata dall’impossibilità di poter effettuare una trasfusione dopo l’intervento.
Testimone di Geova e trasfusione non possono essere conciliabili e la donna sarebbe probabilmente morta dissanguata, vista anche la patologia in corso, spiega l’ematologa dell’ospedale, la dottoressa Giselle Kidson-Gerber.
L’incompatibilità testimone di Geova e trasfusione ha reso impossibile questa pratica normalmente adottata e risolutiva.
Il bambino è così morto nello stesso ventre della mamma che avrebbe dovuto essere il posto più sicuro per lui e la donna è deceduta 13 giorni dopo per un infarto e un conseguente deficit multiorgano.
La dottoressa Kidson-Gerber con la collega dottoressa Amber Biscoe, scrive nel rapporto medico:
“Il rifiuto di un intervento salvavita da parte di un paziente informato è generalmente rispettato, ma il diritto di una madre di rifiutare tali interventi per conto del suo feto è più controverso “
E prosegue:
“Un medico ha infatti obblighi morali sia per la donna incinta e, con diversa priorità, nei confronti del feto. In circostanze come quelle che si sono presentate in cui vi è un conflitto tra l’autonomia fetale e materna o in cui vi sono conflitti tra la sopravvivenza fetale e l’autonomia decisionale materna, si creano grossi problemi.”
I sanitari hanno comunque ribadito che la donna era perfettamente cosciente che, senza quei trattamenti, lei il bambino sarebbero morti.
Questo contrasto tra testimone di Geova e trasfusione è sempre più evidente da quando la tecnologia medica mette a disposizione ancora più possibilità di sopravvivenza di entrambi, mamma e figlio. Nel caso dei bambini nel ventre materno è ora possibile anche trasfusioni di sangue intrauterine o vere e proprie operazioni chirurgiche intrafetali.
Fonte: SydneyMorningHerald